Viola la privacy l’attività volta al “recupero del consenso” di ex clienti che hanno già espresso il proprio dissenso; ciò integra una pratica commerciale illecita!
Con l’ordinanza n. 11019 del 26 aprile 2021, n. 11019, la Sezione Civile della Corte di Cassazione ha condannato una nota compagnia telefonica per l’attività di “recupero del consenso” di ex clienti che, a prescindere dalla loro iscrizione nel “registro pubblico delle opposizioni”, non avevano dato il consenso ad essere nuovamente contattati o lo avevano espressamente negato.
Il caso prende le mosse dal provvedimento del 22 giugno 2016 con cui il Garante per la Protezione dei dati personali, a seguito delle segnalazioni di alcuni utenti che lamentavano di essere stati contattati per finalità promozionali, pur avendone espressamente negato il consenso, da fornitori di servizi operanti per nota compagnia telefonica, aveva vietato a codesta ultima società la prosecuzione di una campagna di recupero del consenso di clienti i quali avevano già manifestato il proprio dissenso.
Contro tale provvedimento dell’Autorità garante la nota compagnia telefonica proponeva ricorso argomentando che il realizzato trattamento dei dati non aveva avuto uno scopo promozionale (art. 7, comma 4, codice), ma era finalizzato solo a verificare la permanenza del dissenso (da parte di coloro che in passato erano stati clienti) a ricevere comunicazioni promozionali, al fine di acquisire l’eventuale consenso.
Orbene, la Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza di cui in epigrafe, ha condannato la compagnia telefonica per l’attività di “recupero del consenso” di clienti che avevano chiesto di non essere più contattati statuendo che «una comunicazione telefonica finalizzata ad ottenere il consenso per fini di marketing, da chi l’abbia precedentemente negato, è essa stessa una “comunicazione commerciale” (…) La finalità della chiamata telefonica è, in effetti, pur sempre quella di effettuare proposte commerciali, a prescindere dal fatto che con la stessa telefonata si effettui o meno anche una vendita di beni o servizi».
D’altronde, conclude la Suprema Corte: «“i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”, a norma dell’art. 11, comma 2, del codice che, insieme alla previsione del sistema dell’opt-out introdotto con l’art. 130 comma 3 bis del codice, realizza – come osservato dal Garante nel controricorso – un equilibrato bilanciamento tra libertà d’impresa e tutela della riservatezza dei dati personali».